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giovedì 26 giugno 2008

La mia intervista su www.arsprima.it

Riproduco quì il testo della mia intervista realizzata per il sito www.arsprima.it.


La pittura è parte di me, ha iniziato a maturare
con me e vive di tutte quelle contraddizioni,
di cui, paradossalmente, vado molto fiero nonostante
il mercato e le mie frequentazioni abbiano tentato
di farmele vivere come una colpa.


Partiamo dai tuoi esordi...


Ho iniziato a far mostre eseguendo una pittura astratta (o meglio, antropomorfa) e monocromatica, praticando dei tagli dentro superfici intonacate. A un certo punto ho sentito la necessità di tornare alla figura, prediligendo smalti e acrilici. Ora vedo e vivo quel tipo di pittura come saturo ed eccessivamente emotivo, così ho cercato di sviscerare il suo pathos, andando verso una sintesi e un rigore che ora sento più autentici e miei. La continua ricerca di uno stile che mi emancipi definitivamente, mi ha condotto a sperimentazioni spesso "trasversali" con inserimenti grafici, necessari per sintetizzare il tratto e renderlo più acerbo.


Nei tuoi quadri esiste un forte citazionismo, ma questo non pare volto a metterti in linea con una certa tradizione, quanto piuttosto all'attribuzione di un significato che è altro.


Proprio così: mi servo della citazione, facendola obbedire, in realtà, ad altri significati.
Quando prendo una "porzione" di un quadro antico, la trasporto letteralmente su un altro piano,
le do un altro sfondo e altri personaggi e, così facendo, un significato diverso. Anche da un
punto di vista formale modifico il tutto: il rapporto delle proporzioni, il disegno, i colori.
C'è un lavoro di costruzione e decostruzione del significato originario, un tentativo di
sgrammaticare la forma originaria.


Cosa intendi per "sgrammaticare" l'immagine?


Si tratta di toglierle il significato eventuale, specialmente le accezioni di massa, e spogliarla
da riferimenti ad essa esterni. C' è un passaggio graduale da un'impronta iniziale ad una finale
che però non è detto che sia quella definitiva. Mi piace l'idea che l'immagine sia completamente
in essere, che sia continuamente modificabile, anche mentalmente. E' questo che produce il mio lavoro: una mobilità mentale per cambiare continuamente punti di riferimento, sensazioni.


L'uso del figurativo e, più precisamente, del "personaggio" sia esso celebre (politico, supereroe, artista) e non, ad esempio le fanciulle raffigurate in Cast(ing), non pare di critica sociale, quanto piuttosto di osservazione di una determinata realtà e di comunicazione di un proprio punto di vista.
Come si coniugano queste due componenti sociale e personale?


Con il motto "essere nel mondo ma non del mondo".


C'è una forte dimensione super partes, allora ...


Fa parte del mio percorso di indipendenza: per quanto questa sia illusoria è anche necessaria. E'
una sorta di proiezione di emancipazione, di uscita da quella illusione ottica che poi è intrecciata
a illusioni mentali.


C'è in altri termini una necessità di essere super partes per poter liberamente
percepire l'immagine originaria e poterla "sgrammaticare".

Sì, nel momento in cui io mi distacco da me stesso, rinuncio a quella serie di valori che io per primo avevo attribuito, un po' per abitudine, un po' per convenienza. E' sicuramente un lavoro di eliminazione dell'ego.


Quale volontà comunicativa si nasconde dietro queste istanze?


E' una comunicazione del sé, per sé ed in sé. Senza complicare eccessivamente le cose, esiste una esigenza comunicativa rivolta allo spezzettare vecchi significati, vecchie simbologie e portarle verso qualcosa di diverso, più contestuale al quadro. Quello per cui mi adopero, nei lavori, è trovare un gioco formale su più livelli e dimensioni pittoriche. Le figure si stagliano nei loro giochi tecnici grazie alla pittura ad olio, su uno sfondo diverso, isolato, con dei segni anche a pennarello e allontanati da varie velature, ad acrilico.
Questo crea, appunto, un dislivello sia fisico che mentale che permette l'inserzione di diversi registri all' interno della composizione. Si crea, così, una sorta di piccolo shock, enfatizzato da un uso "consapevole" del colore.


Cosa intendi per consapevole?


Per consapevole intendo intenzionale, cioè mi servo dei colori come di una medicina curativa, conscio delle proprietà diverse ed intrinseche che ognuno di essi ha e del fatto che sono tutti in grado di incidere direttamente sulla psiche e sul fisico dello spettatore. Il quadro ha per me una dimensione che acquista, man mano che passa il tempo, una consapevolezza terapeutica e curativa per l'essere umano.


Curativa per il fruitore o per il creatore del quadro?


Fruitore e creatore concorrono alla medesima azione di addizione e sottrazione conscia o inconscia del significato del quadro. C'è di fatto una comunicazione sottile tra l'artista e lo spettatore. Si crea una sorta di elettricità statica tra chi fa e chi guarda, che è può portare sia ad un'idea comune che a qualcosa di totalmente diverso.


Come se il senso dell'opera fosse costruito attraverso un duplice canale:
la ricerca dell'artista e l'indagine che lo spettatore compie inconsciamente nel momento dell'osservazione.


Assolutamente. I due momenti nascono separatamente perché sono diversi, però confluiscono: quando il lavoro esce dalle quattro mura dello studio, incontra sensibilità diverse per cui avrà consenso, dissenso o entrambe le cose in maniera parziale. L'opera nasce con questa consapevolezza: quando uscirà dallo studio andrà ad incrociare sensibilità diverse da quelle di chi l' ha fatta materialmente. Lavorare con questa consapevolezza dà input diversi.

Il titolo diviene allora fondamentale.

Ah, sì, quello è basilare, anche se mi riesce sempre più difficile, tra l'altro: a volte rinuncio anche
per settimane a darne uno! Il titolo dà delle coordinate su cui muoversi, un contesto in cui inserire il lavoro. Il precedente processo di eliminazione del contesto tradizionale, complica la scelta del titolo esatto.


Quali immagini colpiscono maggiormente la tua sensibilità?


Le immagini rispondono sempre ad un certo tipo di chiaroscuro, di distribuzione delle masse di colore: è questo quello che mi interessa. E' come se, con la visione dell'immagine iniziale, si formasse un'impronta, che poi verrà progressivamente metabolizzata e trasformata anche attraverso passaggi più astratti. Parto da un tratto molto preciso, definito anche a penna bic sulla tela, poi lo "scarnifico", grazie soprattutto alle proprietà dell'olio che ha la caratteristica di poter giocare con lo spessore, le sfumature.


Qual è il ruolo dell'artista in questa società?


Il ruolo dell'artista in questa società è quello di cercare se stesso e la propria soggettività, cioè il
non darsi dei ruoli predefiniti. Questo non significa che l'artista debba smettere di "porsi delle domande".
Un sistema non può essere negativo di per se stesso, tanto meno un sistema dell' arte, perché l'arte esprime l'uomo. Certamente la mia generazione soffre di pigrizia ed inerzia, per cui la statica situazione attuale è...quella che si merita! Si può parlare per ore delle gallerie, o dei critici; si possono attribuire colpe arbitrariamente, ma alla fine un sistema è la risultante esatta di una specifica attitudine mentale.
Le doti tecniche non mancano a noi giovani artisti, ma finché la mentalità sarà così passiva ed inerte (intendo quando c'è, perché tante volte sembra di avere di fronte uno spazio cerebrale cavo) sarà impossibile che si crei un sistema differente da questo. Il rispetto va meritato, non solo preteso come diritto naturale.

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