Cerca nel blog

sabato 28 giugno 2008

Ti dai.

Come un rotolo svolgo la mia vita, seduto in un angolo compiaciuto e osservante. La vita è un atto creativo e un fiume da lasciare scorrere e andare. E' semplice, ma l'unico imperativo è "lasciare". Non trattenere nulla, lascia. Disidentificati con i ruoli che ti dai e ti danno, non considerare nulla di te come necessario, ma come parte di un atto creativo; osservati in un sogno pesante mescolato con gli altri.

giovedì 26 giugno 2008

La mia intervista su www.arsprima.it

Riproduco quì il testo della mia intervista realizzata per il sito www.arsprima.it.


La pittura è parte di me, ha iniziato a maturare
con me e vive di tutte quelle contraddizioni,
di cui, paradossalmente, vado molto fiero nonostante
il mercato e le mie frequentazioni abbiano tentato
di farmele vivere come una colpa.


Partiamo dai tuoi esordi...


Ho iniziato a far mostre eseguendo una pittura astratta (o meglio, antropomorfa) e monocromatica, praticando dei tagli dentro superfici intonacate. A un certo punto ho sentito la necessità di tornare alla figura, prediligendo smalti e acrilici. Ora vedo e vivo quel tipo di pittura come saturo ed eccessivamente emotivo, così ho cercato di sviscerare il suo pathos, andando verso una sintesi e un rigore che ora sento più autentici e miei. La continua ricerca di uno stile che mi emancipi definitivamente, mi ha condotto a sperimentazioni spesso "trasversali" con inserimenti grafici, necessari per sintetizzare il tratto e renderlo più acerbo.


Nei tuoi quadri esiste un forte citazionismo, ma questo non pare volto a metterti in linea con una certa tradizione, quanto piuttosto all'attribuzione di un significato che è altro.


Proprio così: mi servo della citazione, facendola obbedire, in realtà, ad altri significati.
Quando prendo una "porzione" di un quadro antico, la trasporto letteralmente su un altro piano,
le do un altro sfondo e altri personaggi e, così facendo, un significato diverso. Anche da un
punto di vista formale modifico il tutto: il rapporto delle proporzioni, il disegno, i colori.
C'è un lavoro di costruzione e decostruzione del significato originario, un tentativo di
sgrammaticare la forma originaria.


Cosa intendi per "sgrammaticare" l'immagine?


Si tratta di toglierle il significato eventuale, specialmente le accezioni di massa, e spogliarla
da riferimenti ad essa esterni. C' è un passaggio graduale da un'impronta iniziale ad una finale
che però non è detto che sia quella definitiva. Mi piace l'idea che l'immagine sia completamente
in essere, che sia continuamente modificabile, anche mentalmente. E' questo che produce il mio lavoro: una mobilità mentale per cambiare continuamente punti di riferimento, sensazioni.


L'uso del figurativo e, più precisamente, del "personaggio" sia esso celebre (politico, supereroe, artista) e non, ad esempio le fanciulle raffigurate in Cast(ing), non pare di critica sociale, quanto piuttosto di osservazione di una determinata realtà e di comunicazione di un proprio punto di vista.
Come si coniugano queste due componenti sociale e personale?


Con il motto "essere nel mondo ma non del mondo".


C'è una forte dimensione super partes, allora ...


Fa parte del mio percorso di indipendenza: per quanto questa sia illusoria è anche necessaria. E'
una sorta di proiezione di emancipazione, di uscita da quella illusione ottica che poi è intrecciata
a illusioni mentali.


C'è in altri termini una necessità di essere super partes per poter liberamente
percepire l'immagine originaria e poterla "sgrammaticare".

Sì, nel momento in cui io mi distacco da me stesso, rinuncio a quella serie di valori che io per primo avevo attribuito, un po' per abitudine, un po' per convenienza. E' sicuramente un lavoro di eliminazione dell'ego.


Quale volontà comunicativa si nasconde dietro queste istanze?


E' una comunicazione del sé, per sé ed in sé. Senza complicare eccessivamente le cose, esiste una esigenza comunicativa rivolta allo spezzettare vecchi significati, vecchie simbologie e portarle verso qualcosa di diverso, più contestuale al quadro. Quello per cui mi adopero, nei lavori, è trovare un gioco formale su più livelli e dimensioni pittoriche. Le figure si stagliano nei loro giochi tecnici grazie alla pittura ad olio, su uno sfondo diverso, isolato, con dei segni anche a pennarello e allontanati da varie velature, ad acrilico.
Questo crea, appunto, un dislivello sia fisico che mentale che permette l'inserzione di diversi registri all' interno della composizione. Si crea, così, una sorta di piccolo shock, enfatizzato da un uso "consapevole" del colore.


Cosa intendi per consapevole?


Per consapevole intendo intenzionale, cioè mi servo dei colori come di una medicina curativa, conscio delle proprietà diverse ed intrinseche che ognuno di essi ha e del fatto che sono tutti in grado di incidere direttamente sulla psiche e sul fisico dello spettatore. Il quadro ha per me una dimensione che acquista, man mano che passa il tempo, una consapevolezza terapeutica e curativa per l'essere umano.


Curativa per il fruitore o per il creatore del quadro?


Fruitore e creatore concorrono alla medesima azione di addizione e sottrazione conscia o inconscia del significato del quadro. C'è di fatto una comunicazione sottile tra l'artista e lo spettatore. Si crea una sorta di elettricità statica tra chi fa e chi guarda, che è può portare sia ad un'idea comune che a qualcosa di totalmente diverso.


Come se il senso dell'opera fosse costruito attraverso un duplice canale:
la ricerca dell'artista e l'indagine che lo spettatore compie inconsciamente nel momento dell'osservazione.


Assolutamente. I due momenti nascono separatamente perché sono diversi, però confluiscono: quando il lavoro esce dalle quattro mura dello studio, incontra sensibilità diverse per cui avrà consenso, dissenso o entrambe le cose in maniera parziale. L'opera nasce con questa consapevolezza: quando uscirà dallo studio andrà ad incrociare sensibilità diverse da quelle di chi l' ha fatta materialmente. Lavorare con questa consapevolezza dà input diversi.

Il titolo diviene allora fondamentale.

Ah, sì, quello è basilare, anche se mi riesce sempre più difficile, tra l'altro: a volte rinuncio anche
per settimane a darne uno! Il titolo dà delle coordinate su cui muoversi, un contesto in cui inserire il lavoro. Il precedente processo di eliminazione del contesto tradizionale, complica la scelta del titolo esatto.


Quali immagini colpiscono maggiormente la tua sensibilità?


Le immagini rispondono sempre ad un certo tipo di chiaroscuro, di distribuzione delle masse di colore: è questo quello che mi interessa. E' come se, con la visione dell'immagine iniziale, si formasse un'impronta, che poi verrà progressivamente metabolizzata e trasformata anche attraverso passaggi più astratti. Parto da un tratto molto preciso, definito anche a penna bic sulla tela, poi lo "scarnifico", grazie soprattutto alle proprietà dell'olio che ha la caratteristica di poter giocare con lo spessore, le sfumature.


Qual è il ruolo dell'artista in questa società?


Il ruolo dell'artista in questa società è quello di cercare se stesso e la propria soggettività, cioè il
non darsi dei ruoli predefiniti. Questo non significa che l'artista debba smettere di "porsi delle domande".
Un sistema non può essere negativo di per se stesso, tanto meno un sistema dell' arte, perché l'arte esprime l'uomo. Certamente la mia generazione soffre di pigrizia ed inerzia, per cui la statica situazione attuale è...quella che si merita! Si può parlare per ore delle gallerie, o dei critici; si possono attribuire colpe arbitrariamente, ma alla fine un sistema è la risultante esatta di una specifica attitudine mentale.
Le doti tecniche non mancano a noi giovani artisti, ma finché la mentalità sarà così passiva ed inerte (intendo quando c'è, perché tante volte sembra di avere di fronte uno spazio cerebrale cavo) sarà impossibile che si crei un sistema differente da questo. Il rispetto va meritato, non solo preteso come diritto naturale.

Ricordati.

La pittura è conoscenza dei propri mostri interiori; la gestione libera, al limite degli autocontrolli, svincolata dalle necessità della realtà così come appare, nella sua frontalità esigente e maleducata. Dipingere, come le altre discipline artistiche, è un atto in cui inscenare per un momento protratto per un tempo "x" un mondo possibile. Che si riproduca la realtà oppure si crei per imaginatio, si inscena sempre una possibilità reale trasportata su una dimensione parallela. Durante l' atto creativo, non ci devono essere limiti; si agisce su un piano separato, che ha bisogno di rimettere in gioco continuamente ogni cosa. Certamente, anche parlare può essere un atto creativo. Anche stirare una camicia. Anche comporre un sms. Tutto può aprire delle porte inattese.
Così, praticare ad esempio il ricordo del sogno (o sogno lucido) significa sviluppare la capacità di portare alla lucidità i sommovimenti interni. Tutto avviene, infatti, al di là di un eventuale e possibile tracollo personale, privato. Le cose danzano e partecipano e non si possono strozzare. Puoi rimandarle, e vivere fingendo di vivere. Una cosa è vivere senza identificarsi in nulla e godere del flusso di tutte le cose che passano, un' altra è scansarle fingendo che non facciano male, o godere. Vivere è un atto semplice e drammatico. Spesso è un atto coercitivo, e tutta quella resistenza cui le si oppone disperatamente alimenta mostri, che al nostro sforzo ne contrappongono uno molto maggiore.

mercoledì 18 giugno 2008

Caino e Abele.

Nel Vangelo di Tommaso, quello definito per “iniziati” (“eretico” da tanti altri), è scritto: “Quando di due farete uno e renderete l’ interno identico all’ esterno e l’ esterno identico all’ interno e l’ alto identico al basso, e farete una cosa sola del maschio e della femmina, di modo che il maschio non sia maschio e la femmina non sia femmina, quando farete occhi al posto di un occhio, una mano al posto di una mano, un piede al posto di un piede, un’ immagine al posto di un’ immagine, allora entrerete [nel Regno]”.

Gli Etruschi amavano decorare le pareti con dei motivi a scacchiera; per loro la vita era, appunto, una scacchiera di alternanza di elementi contrapposti dentro un ordine cosmico divino, dualistico, un vero reticolo su cui costruire il senso delle cose.

Questa è una visione più “complessiva”, ma anche più distaccata. Sembrerebbe che la dualità sia qualcosa di cui prendere semplicemente coscienza, e inserita in una ottica a largo raggio; anzi la scacchiera potrebbe, in fondo, proseguire all’ infinito senza che vi sia in fondo la necessità di terminarla, con una nota quasi di fatalismo. Nella visione del vangelo apocrifo si tende più a cercare di equilibrare gli elementi, con uno sforzo spiritualmente attivo a fondere due parti in una. Anzi si spinge affinchè si lascino emergere dal profondo tutti gli elementi costitutivi di un individuo; si ricorderà infatti l’ espressione:”sarà portato alla luce tutto ciò che viene tenuto nascosto”. Così come penso alla frase: “e i due faranno del corpo una cosa sola e lasceranno la casa del padre e della madre”, che ha lo stesso medesimo senso se letto in questa chiave. Una ricerca spregiudicata di sincerità direi “intestina”, che ricorda da vicino certe pratiche di “rebirthing”. Trovo bellissimo come, in realtà, la mistica che emerge da questo Vangelo (e dagli apocrifi in generale, bisogna dirlo) sia volta a non considerarsi separati dal cielo, ma a realizzare il cielo sulla terra. Sei immerso nella terra; non dimenticarlo, non scappare, non fingere di essere altro da te. Realizza piuttosto una completezza interiore, equilibra tutto te stesso, fondi il sé inferiore con il Sé Superiore , che deve emergere da questa voragine.

Tornando agli Etruschi, i rituali sacri ed esoterici pare avvenissero tramite sacerdoti preposti che con una mano posta sul capo chiudevano il contatto con il cielo (rappresentato dalla parte superiore del cranio), e con l’ altra si sintonizzavano con le energie emanate, secondo il loro punto di vista, dal terreno, dal basso.

mercoledì 11 giugno 2008

Il calamaro gigante.

Un uomo è diviso in centinaia di pensieri, ma soprattutto di identità. Egli si identifica con una o due tra queste, che magari sono la somma di altre; alcune le esclude per vergogna, molte per convenienza, molte ancora per timidezza e così via. Queste identità giacciono in un sottosuolo alla Dostojievski; un mare a riposo con i suoi relitti sul fondale, con molte specie nascoste e inesplorate. Continuamente emettiamo pensieri, idee, stati d' animo; sopra la calotta cranica un coperchio dorato, da presentare all' esterno. Così autoselezioniamo noi stessi per il mondo esterno, mentre quello interno è un brulichio di cose, un vero formicaio, spesso sconveniente. Questo conflitto irrisolto, ma costantemente presente, ci corre dentro e silenziosamente lacera le fibre. Quanto più cerchiamo di tappare le molte parti di noi, e io dico i molti Noi, tanto più ci riesce difficile. Anzichè vedere la realtà esterna come riflesso di ciascuna delle molte nostre parti costituenti, costringiamo noi stessi a conformarci alle piccole regole della vita esterna, e i Noi interni si assoggettano ai Loro esterni. Questa costante opera di autorepressione crea insicurezze e paure. Per sanare queste autentiche ferite interiori, occorre rappacificarsi con i molti aspetti di sè, anzi con i molti sè. Riconoscerli, chiamarli per nome; prenderne atto, insomma, per ciò che sono naturalmente. Voler distruggere, più o meno inconsciamente, qualcuno di questi sè, non fa che rafforzarli. Quando anzi vengono rinchiusi a forza nello scantinato cominciano a gridare, a impazzire, e perdere il controllo. Quando ci sentiamo veramente innamorati, siamo consci di essere "noi stessi", "naturali". Si dice:" hai fatto emergere un me stesso che non pensavo di avere". Io aggiungo anche che è sempre tempo di essere innamorati, tutto sommato. Bisogna però smettere di vestire questo o quell' altro ruolo, dando adito a competizione, insoddisfazione, repressione, che sono tutti tappi emotivi. Non è merito di un altro l' averti cavato fuori altri Te; sei tu ad esserti ricongiunto con una tua parte costitutiva, nel bene e nel male. Sempre che tu non voglia pensare di essere dentro un sistema in cui sei totalmente sottomesso all' esterno e nulla dipende da te!

mercoledì 4 giugno 2008

Professionisti del cuore d' oro.

Questo disegno è un esercizio di dolore. Se ti ripugna, ti infastidisce, non capisci il tuo dolore. Se sei capace di soffermarti, pensando di andare oltre la protezione che eserciti su di te, vedrai fino in fondo che, col passare dei secondi, si trasforma in una immagine di estasi. Il dolore a un certo punto si spacca, si apre. C’è un livello che il pianto umano apre e squarcia, trasforma la soglia. Nel dramma umano, il dolore sappiamo quanto abbia un ruolo fondamentale per la conoscenza delle cose.
C’è chi vive singhiozzando, chi piangendo, infine chi pensa di esportare il proprio benessere lontano, molto lontano da sé. In un posto molto lontano dal cuore, sciorina la propria lezione di vita in posti lontanissimi, dove non vi sono persone troppo simili a sé. Il dolore umano non trasloca: non è che sia maggiore da una parte e minore da un’ altra; troppo difficile calcolare le sue forme, i suoi modi di manifestarsi. Ma quando serpeggia vicino, troppo vicino per essere guardato negli occhi, allora è meglio partire, è meglio andare alla missione, più lontano possibile da casa, dalle abitudini, dai familiari. Urla troppo, il dolore, a casa propria; meglio farsi professionisti del sollievo.